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La Casa in pietra grigia / Jelena Banfichi Di Santo - Bari : Florestano Edizioni, 2009 - 616 p. - recensione a cura di Giovanna Scianatico.


Dietro l’esile figura della giovane donna protagonista del romanzo di Jelena Banfichi, si accampa una grande protagonista collettiva, la terra madre da cui essa proviene (l’isola di Hvar, la Dalmazia, la Croazia, la Jugoslavia) con i suoi paesaggi, le luci, i colori, le città, con le sue generazioni, le sue molteplici e intrecciate identità, terra oggetto di odio e amore, di rifugio e rifiuto, come la grande casa in pietra grigia, sua immagine simbolica, accogliente corpo materno perduto. Sembrerebbe infatti mancare, a fronte della figura del padre, decisiva nel libro, l’immagine materna, se non vi fosse simbolicamente presente e vibrante nella passione delle descrizioni paesistiche, della terra-casa, radice sicura di identità in un mondo in caotico cammino. Un romanzo di viaggio? Non certamente nell’accezione classica del genere, ma a livello più profondo, nel senso che il suo percorso narrativo coincide con lo spostamento/maturazione della protagonista attraverso i territori della ex-Jugoslavia in cui la portano le quotidiane occasioni del vivere ma insieme un consapevole progetto di vita. Il rapporto tra letteratura e territorio si pone così come asse costante del testo, anche nei risvolti umani che esso comporta, in una situazione storica e politica complessa come quella della Jugoslavia uscita dalla guerra, della difficile composizione del suo coacervo di nazionalità. Un romanzo storico, dunque, ma attraverso un vissuto, un punto di vista “dal di dentro”, attraverso un racconto autobiografico, nel quale una vicenda individuale si fa veicolo di molteplici vicende, generazioni, Paesi, quante sono le presenze corali che lo affollano: dai contadini delle pianure pannoniche, dai pescatori delle isole Spalmadori, al dissenso intellettuale di Zagabria, ai circoli studenteschi, alle diverse etnie, alle élites di regime dei banchetti ufficiali, in cui il suo lavoro di interprete porta la protagonista, alla Belgrado industriale della fine degli anni sessanta. Il fascino del libro - un libro/fiume, raffinato, carico di dettagli, a suo modo epico, secondo un modello caratterizzante della narrativa slava - sta nella possibilità che offre di penetrare nelle intricate vicende di un ventennio (fino al ‘68) della storia dei Balcani, attraverso la presa di coscienza progressiva di una studentessa dalmata, coraggiosa e determinata, pronta a mettere in gioco la sua vita. A partire dalla favolosa infanzia sull’isola di Hvar, nella antica casa in pietra grigia dal giardino carico di essenze e di fiori, dai paesaggi marini sterminati e solari o brumosi e densi di nubi, attraverso la giovinezza nel dopoguerra di una nazione in formazione, fino alla conoscenza dei suoi aspetti etnici e paesistici e alla presa di coscienza dei suoi problemi politici, si rappresenta la difficile ricerca di identità della protagonista, filtrata dalle contrastate esperienze studentesche zagabresi e dall’impegno di collaborazione con l’équipe di riforma della Costituzione jugoslava per l’Autogestione Socialista, mescolando personaggi storici, nomi fittizi, esperienze di amicizia e lavoro, forse d’amore, di politica e letteratura, che la narrazione trascina, nel suo ritmo avvincente, verso approdi desolati, ma insieme aperti sul futuro, aperti alla conquista di un senso di appartenenza collettiva, che si fa limpido attraverso il tempo. La scrittura della memoria disegna così i suoi preziosi arabeschi, come le bianche fioriture di lippo, sul corrimano in ferro battuto della ringhiera “oltre le brine mattutine di Natale”, o il profilo crepuscolare di Lissa “scura nella foschia blu violacea, come un’imbarcazione immobile, mistica”, fino a rendere trasparente la storia. Scorrono le immagini e i destini degli occupanti fascisti e dei partigiani, delle zie, degli abitanti dell’isola, amata nelle sue piante e nelle sue rocce, nelle sue spiagge e passeggiate crepuscolari. Mi sembra anzi che le descrizioni al crepuscolo, quando le tinte si disfano in metamorfosi fiabesche, siano le più consentanee alla sensibilità coloristica sfumata di Banfichi: “[…] una lieve foschia si innalzava sopra i tetti. A quell’ora di prima sera gli odori di zolla umida, degli alberi di frutta sfioriti e di erbe aromatiche piantate nei vasi di latta si sprigionavano con prepotenza. Dai camini appena accesi nelle basse cucine, un lieve flotto di fumo avvolgeva usci e finestre aperti sulla morbidezza dell’imminente calare dell’oscurità.” (pp. 77-78). Dalla favola senza tempo di una cadenza bucolica remota alla primavera di Zagabria, brulicante di vita, di caffè, di scrittori e studenti, di teatri e giornali, la narrazione si snoda passando per le grandi e bruciate pianure della Slavonija, coltivate a tabacco e granoturco dai collettivi contadini, vivide di campi di girasoli, e per i verdi smaglianti dei boschi bosniaci, dove s’intrecciano partite di pesca nei torrenti e ricerche di canti popolari, in compagnia di amici Serbi e Bosniaci. Personaggi amicali dalle varie nazionalità e religioni prefigurano una possibilità di convivenza pacifica, come nell’idillio notturno sull’altipiano del Durmitor. Un’utopia smentita dalla faticosa realizzazione e in ultima analisi dal fallimento delle riforme, dalle epurazioni. I luoghi assumono il valore di frammenti di questa possibile utopia, in pagine di forte colore locale, da Nova Gradiska, la cui periferia si accende di distese di alberi di prugne carichi di frutti viola, punteggiate di malvarosa, e del profumo allegro e pungente della grappa delle distillerie, alla musica barocca e ai palazzi di Varazdin e della turrita Stari Grad, alla deliziosa e intellettuale Novi Sad, nel cuore della Serbia e della Vojvodina, alle sponde dei fiumi - dal Danubio alla Sava, ai torrenti di montagna, agli affluenti della Drina - a Sarajevo, a Sveti Stefan (nel doloroso momento del suo passaggio da villaggio di pescatori montenegrini all’anonimato del turismo internazionale), alla stupenda descrizione dell’alba nelle acque paludose fra le distese a perdita d’occhio e i canneti del lago di Scutari, nel parco nazionale di Dodosi: “Il flusso dell’acqua che seguivamo, uno dei tanti che solcavano il canneto […] ci portava verso il promontorio dell’Andrijska Gora […] ritta in un infinito campo di giunchi di palude, con i pennacchi smossi dal leggero flusso d’aria che - se osservati dall’alto - li faceva somigliare a un campo di grano maturo. Prima del sorgere del sole, gli uccelli iniziarono a farsi sentire, inizialmente con uno stridere solitario, accompagnato da rare e poi sempre più frequenti risonanze, simili all’eco. In breve l’acquitrino si popolò di un’infinità di uccelli: piccoli, grandi, bianchi, grigi, colorati, folaghe, tuffetti, strolaghe, gabbanelle, pescaiole, germani reali, oche colombaccio e tantissimi trampolieri, come l’airone bianco e cenerino, avocetti, cavalieri d’Italia, garzette in gruppi e solitarie” (pp.560-561). Malgrado la ridondanza di alcune ricostruzioni memoriali, dove più insiste il ricordo personale (ma si tratta di scelte di chi scrive, a volte di una caratterizzazione consapevolmente femminile impressa alle pagine, come nell’accurata descrizione degli abiti) e di passi, talvolta giustapposti al narrato, rivolti al dispiegamento di tematiche storico-politiche, di per sé già perspicue e trasparenti dallo spontaneo svolgersi della vicenda, non viene meno il fascino della fluente vena epico-descrittiva della Banfichi, di un libro dallo snodarsi fluviale, dal calmo e avvolgente ritmo, destinato a restare nella memoria, destinato a fare riflettere e fantasticare, prolungando in ciascun lettore, l’eco, il lento rifrangersi della sonora onda narrativa.

GIOVANNA SCIANATICO


Monografia



Florestano Edizioni



2009

XXI




Dalmazia, romanzo novel

Italy

Italiano




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